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Quando un avvocato pavese tenne testa a Napoleone: la storia di Camillo Campari

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Dall’attuale frazione di fossarmato, a pochi chilometri dal centro storico, o dalle campagne poco oltre Borgo Ticino, centinaia di contadini si mettono in marcia verso le mura. Sono esasperati per le continue requisizioni dei loro già pochi averi. In più, proprietari terrieri fanno spargere ad arte la voce che i francesi sono stati sconfitti sul Mincio dalle truppe austriache e il loro ritorno a Pavia è imminente.

La città prende fuoco.

Uno dei capi della rivolta, Natale Barbieri fa irruzione al Broletto, dove c’è la sede del municipio, si impadronisce assieme ad altri facinorosi di fucili e sciabole. Scendono poi verso il fiume percorrendo Strada Nuova , mentre le file dei rivoltosi si ingrossano Giungono a Porta Ticino. Qui ci sono alcune sentinelle francesi, preoccupate nell’osservare dalle mura l’orda dei contadini che con forconi, roncole , bastoni e zappe arriva dall’altra parte della riva e si incammina sul ponte Coperto per entrare in città.

Barbieri e i suoi seguaci bloccano e disarmano le guardie. I contadini sono animati da Paolo Bianchi e Domenico Cappelli, rispettivamente il parroco e il vice parroco di Samperone (l’attuale frazione di Certosa di Pavia) si trovano la porta spalancata, entrano. Tutti insieme ripercorrono Strada Nuova e intravedono piazza del Duomo.

Le vie di Pavia sono alla mercé di bande di straccioni affamati , la maggior parte dei quali saccheggia i negozi per mangiare. Ma tanti altri inneggiano anche all’imperatore , di cui chiedono il ritorno , e urlano “via le coccarde” per mettere ben chiaro le loro preferenze.

La fiumana, da qualunque sentimento venga mossa, sradica l’albero della libertà innalzato dai giacobini pavesi e dai soldati francesi solo qualche giorno prima.

Sono soprattutto i contadini i più esagitati. I francesi trovati per le strade vengono circondati aggrediti, malmenati, e disarmati. La guarnigione esce dal Castello per reprimere la rivolta , ma vista la folla immensa, armata di falci e roncole, decide di tornare alla base e tirar su il ponte levatoio.

Allora inizia la caccia ai giacobini.

Chi non riesce a fuggire per tempo, viene preso, picchiato e rinchiuso nel palazzo del Broletto.

I soldati francesi catturati, invece finiscono all’ex seminario generale.

Ora che di nemici per le strade non ce ne sono più, qualcuno comincia a rivolgere uno sguardo torvo verso i palazzi dei repubblicani, o “giacomini” come qualche contadino li chiama. Come si è visto , la maggior parte dei nobili ha fatto togliere, giusto in tempo, stemmi e simboli araldici dai muri. Ma questo non basta. O meglio, non basterebbe, se sulla scena non si presentasse uno dei protagonisti più coraggiosi e degni della storia di Pavia: Camillo Campari.

Campari è un avvocato quarantenne , senza alcun incarico ufficiale , di cui poco o nulla si sa fino a quel momento, ma che di certo gode di grande prestigio. Infatti è proprio lui a convincere gli improvvisati capi della rivolta a evitare saccheggi e violenze sui prigionieri.

Intanto da Voghera, proprio in quelle ore, giunge un generale francese a capo di una guarnigione. Alexander Haquin è del tutto ignaro di quanto sta succedendo. Ha solo il tempo di insospettirsi quando non vede le sentinelle alle porte della città. Un attimo dopo è circondato , disarmato insieme ai suoi pochi soldati, e condotto come prigioniero insieme agli altri al palazzo comunale. E’ ancora Campari a intervenire per evitare guai peggiori all’ufficiale. Haquin viene sottratto alla folla e si rifugia, sempre grazie all’aiuto dell’avvocato pavese, in un palazzo privato al sicuro.

Intanto la rivolta per le strade raggiunge il culmine, con i rintocchi delle campane della Torre Civica, la cui porta è stata sfondata proprio per questo motivo. Anche il castello , dove qualche centinaio di soldati è rinserrato, viene circondato.

Forse addirittura viene sparato un colpo di un vecchio cannone, che lo stesso Barbieri ha predato a villa Barbiano da Belgioioso, un piccolo paese a una ventina di chilometri da Pavia. Al tuonar dell’arma , i francesi decidono di arrendersi.

E’ il 25 maggio del 1796 e tutti i soldati repubblicani sono ormai rinchiusi nell'attuale ex convento di Santa Chiara , in Via Langosco. La rivolta di Pavia, quando giunge la notizia ai comandi francesi impegnati in Veneto contro gli austriaci, ha l’effetto di una scossa. Si teme , e non a torto, che dalla città del Ticino possa dilagare una controrivoluzione che raggiunga, cosa ben più pericolosa , Milano.

Ancora una volta l’esercito francese affida l’arduo compito di riportare la calma al suo miglior generale, Napoleone Bonaparte.  Egli stesso è convinto che, come avrebbe scritto poi nelle sue memorie, quella di Pavia poteva essere “la scintilla di un insurrezione italiana”.

A tappe forzate , torna dunque verso la Lombardi. Le intenzioni delle truppe transalpine sono ben chiare sin da subito. Partendo da Milano, seguendo l’attuale strada provinciale dei Giovi , un’avanguardia guidata dal generale Jean Lannes giunge a Binasco che, su ordine dello stesso Napoleone, viene messo a ferro e fuoco.

Qualche ora dopo i francesi sono sotto le mura di Pavia. Qui c’è Bonaparte in persona a guidare le operazioni.

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Impossibile, ovviamente, che qualche migliaio di contadini male armati possano resistere di fronte alle truppe addestrate e guidate da uno dei più grandi strateghi che la storia militare ricordi.

I francesi fanno irruzione in città da Porta San Vito (oggi Porta Milano, in viale XI febbraio) e Borgaretto (l’attuale Porta Cavour, in piazza Minerva), dopo un breve cannoneggiamento. Gli insorti vengono facilmente messi in fuga,i contadini presi a sciabolate e trucidati dai colpi di baionetta e dalle fucilate.

Per le strade è una strage.

Al numero civico 20 di viale Matteotti, sulla facciata di un’elegante palazzina, c’è una lapide che ricorda quei giorni.

Napoleone entra in città poco dopo la strage dei rivoltosi, e si stabilisce a palazzo Caccia, oggi palazzo Cattaneo. E’ in queste stanze che va in scena l’epico incontro.scontro fra il condottiero e il mite, Camillo Campari. Non si sa , racconta Milani, a che titolo si presenti davanti al generale l’avvocato pavese. Di sicuro, comunque, gode di grande prestigio in città.

Napoleone pensa a una punizione esemplare per Pavia. Campari si oppone. Si racconta che volano gli stracci, il generale dell’armata francese in Italia picchia i pugni sul tavolo. Ma Campari non si fa impressionare. Chiede , e ottiene, che Pavia venga risparmiata. Il coraggio e l’atteggiamento tranquillo dell’interlocutore alla fine prevalgono. Unica concessione , una razzia di sole 24 ore.

“Pavia fu la sola città che abbandonai al saccheggio – scriverà Napoleone nel memoriale di Sant’Elena – Avevo promesso ai soldati un giorno di rappresaglia, ma appena ne furono passate tre ore e non potei resistere allo strazio dei cittadini e ordinai che cessasse. Avevo comunque con me 1200 uomini, ma le grida pietose della popolazione giunsero fino a me e vinsero il mio rigore.”

Qualcosa , comunque, succede. L’ira dei militari colpisce botteghe e dimore di nobiltà e borghesia, vengono depredati gioielli e tutto quanto di prezioso si trova. Ci scappa anche un morto illustre. Padre Severino Capsoni, storico ed erudito pavese, viene raggiunto da una fucilata francese mentre è affacciato alla finestra di casa sua, nella via che oggi porta il suo nome.

Della Pavia in subbuglio di quei giorni , tra sciabolate , spari e duelli, esiste un’incisione di Emile Vernet, ospitata nei musei civici. Di quelle drammatiche ore resta, su tutti, la figura di Camillo Campari,senza il quale la città avrebbe avuto un destino ben più tragico.