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la nascita degli orfanotrofi e la storia di cesare mori: il “prefetto di ferro”

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Le continue guerre e soprattutto le frequenti pestilenze del XVI secolo lasciano una scia di morte e desolazione in città lungo tutto l’arco della dominazione spagnola.

Ma i tempi duri non impediscono la nascita di alcuni intellettuali pavesi come Bernardo Sacco, diplomatico, latinista e autore del “Historia Ticinensis”, Stefano Breventano, anche lui autore di una “Historia dell’antichità, nobiltà et cose notabili della città di Pavia”, e Teseo degli albonesi, che firma una traduzione del Vangelo in arabo.

Lo stato di estrema indigenza in cui si trova a vivere la maggior parte della popolazione fa registrare una forte presenza di orfani e bambini abbandonati.

Cerca di provvedere il comune , ma non basta. Nei primi decenni del Cinquecento in soccorso dell’ente pubblico arriva la carità privata.

Nascono due orfanotrofi , uno femminile e uno maschile. Via Del Muto dell’Accia al Collo è una strettissima stradina proprio dietro l’attuale sede del tribunale. Basta percorrere corso Cavour e girare a destra per raggiungerla.

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Non è cambiato nulla , da allora, tranne i palazzi rifatti di recente.

A poche centinaia di metri c’è l’istituto zoologico Spallanzani. Girando per le strade della Pavia spagnola., magari di notte, approfittando del buio e del silenzio, si sarebbe vista una donna che furtivamente abbandona un fagotto davanti alla porta di un edificio che i pavesi di allora conoscevano bene. E’ il monastero di San Gregorio, sede dell’orfanotrofio femminile, chiuso poi nel 1799. Più noto invece, anche perché attivo fino in epoca moderna , è l’orfanotrofio maschile la colombina. A fondarlo, nel 1534, è un nobiluomo veneziano, Gerolamo Miani. Miani, promotore degli orfanotrofi nelle città d’Italia, era stato chiamato a Pavia proprio per organizzare la raccolta e l’assistenza di fanciulli senza genitori e con il contributo di nobili concittadini come Angelo Marco e Vincenzo ‘de Conti Gambarana.

Trova la sede della struttura nella chiesa che sorge nella zona attuale fra via Gambini e via Romagnoli, detta dello Spirito Santo, che secondo la tradizione cristiana è rappresentato da una colomba. Da cui il nome dell’orfanotrofio. Ed è per questo che a Pavia gli orfani vengono chiamati “Colombini”.

Nel 1810 la Colombina cesserà di essere sede dell’orfanotrofio per diventare l’attuale Palazzo di giustizia. Un filo rosso lega la destinazione attuale dell’edificio alla sua antica funzione di ricovero per neonati senza famiglia. Il più illustre di loro, oltre tre secoli dopo, sarà Cesare Mori, passato alla storia come il “prefetto di ferro”.

Bisogna ora fare un salto in avanti , lasciando per un momento la Pavia della dominazione Spagnola. E’ il primo gennaio del 1872. E’ da poco passata la mezzanotte. Il primo bambino a venir deposto dentro la ruota del nuovo orfanotrofio della città, ricavato nell’ex monastero di San Felice, soppresso poi nel XVII secolo e attualmente in Via Cavallotti, è destinato a lasciare un segno indelebile nella storia d’Italia. All’orfanello viene dato il nome di Primo Nerbi, secondo quanto annotato scrupolosamente nei registri , dal sorvegliante Mario Perelli, visto appunto  che era il primo orfano preso in carico dall’istituto.

Qualche anno più tardi, il “Colombino” pavese viene incaricato da Benito Mussolini di combattere la mafia in Sicilia in qualità , appunto, di prefetto. Sarà tra i pochi a riuscire a mettere davvero in ginocchio Cosa Nostra, al punto quasi di scrivere la parola fine alla criminalità organizzata più temuta di sempre. La sua vita non è facile. Primo vive in orfanotrofio fino all’esatto compimento degli otto anni perché il bambino è frutto di un rapporto fuori dal matrimonio . Solo quando i suoi genitori naturali, l'ingegner Felice Mori e  la moglie Rachele Pizzamiglio, regolarizzano la loro unione con il matrimonio lo riprendono a casa. E solo allora gli viene cambiato il nome in Cesare.

E’ il maggio del 1924. Mussolini è appena rientrato da un viaggio di 15 giorni in Sicilia. Giusto il tempo di maturare una convinzione : contro la mafia occorrono misure straordinarie. Prende una decisione : mobilitare l’esercito  e inviare qualcuno in grado di dominare la situazione. Chiede un uomo estraneo al contesto, capace, inflessibile, “esperto di cose siciliane senza essere siciliano”. Il gerarca Emilio De Bono non ha dubbi: il prefetto Cesare Mori è la persona che ci vuole. Impermeabile a compromessi, indifferente alle lusinghe, inesorabile nel far applicare la legge. In una parola, incorruttibile. Il curriculum del pavese è di prim’ordine, del resto. Vincitore , primo su 107 candidati , di un concorso  per “alunno di 2 classe” nella pubblica sicurezza – era il 1898, aveva solo 26 anni – Mori si ritrova a dirigere la prefettura di Bologna nel 1921,con un sorprendente curriculum di  trasferimenti e promozione. Quella in Sicilia è l’ennesima tappa di una carriera costellata di riconoscimenti ma anche di accuse per i suoi metodi che non ammettono mezze misure. 

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Mori , soprattutto, non è fascista, al contrario di quanto si crede. Si considera un servitore dello Stato . E in quell’ epoca lo Stato è Mussolini. E’ lo stesso capo del fascismo a sfatare il mito del prefetto nero.

“Spero che questo Mori sarà altrettanto duro con i mafiosi quanto lo stato è con i miei squadristi a Bologna”, dice firmando il decreto d’incarico. A ottobre del 1925 il prefetto trasferisce il suo quartier generale a Palermo. In assenza di garanzie costituzionali. Mori cinge d’assedio paesi, taglia acquedotti , affama e asseta gli abitanti per stanare i latitanti.

L’assedio di Gangi – paese delle Madonie sposato alla mafia- svolto con gran schieramento di militari, è la firma indelebile che il prefetto lascia in una Sicilia dove la criminalità è radicata nelle campagne , nei feudi sconfinati nell’entroterra. Capitale agricolo e povertà. Nobiltà e bassa manovalanza. Braccianti e aristocrazia.

Il prefetto di ferro è implacabile con chiunque.

Tutto fila liscio fin quando non comincia a estendere le sue indagini, a colpire più in alto , coerente con la sua fama di duro che non guarda in faccia a niente e nessuno. Il 3 dicembre 1927 la Camera concede l’autorizzazione a procedere contro l’onorevole Alfredo Cucco, accusato di collusione con i capi mafia. E’ l’inizio della fine. Mussolini invita Mori a lasciare le ricerche negli archivi giudiziari. Il prefetto continua invece. Il duce allora lo nomina senatore e lo manda in pensione.

La mafia – afferma Mussolini – è stata debellata. Una bugia , ovviamente. Ma da servitore dello stato quale si sente ed è , il “Colombino” Pavese obbedisce agli ordini e lascia l’isola.