La Furia dei Pavesi: Distruzione del Palazzo Reale e il Destino del Regisole
Che i pavesi fossero gente arcigna e propensa a menar le mani, allora, lo testimonia un altro episodio, ancora più clamoroso. Del palazzo reale , sede di re e imperatori, o re-imperatori, oggi non c’è traccia. E la colpa,stavolta, non è di una nuova orda barbarica calata da nord che mette a ferro e fuoco la città.
Non esiste più. L’edificio, se non nei libri di storia, per la furia degli antenati degli attuali abitanti.
A dire il vero, in quel lontano inverno del 1003, la dinastia dei tedeschi Ottoni è alla fine dopo aver regnato con alterne fortune in Italia per circa un secolo.
In Germania Enrico II di Baviera si mette alla testa di un esercito per ribadire il predominio che Arduino, l’anno prima, ha sottratto al dominio tedesco. E’ stato nominato re proprio nella Chiesa di San Michele, ancora oggi meta di migliaia di turisti. Il sovrano teutonico, però,ha ben altri progetti per Pavia.
Scende in Italia per sfidare il rivale, che fugge prima dell’arrivo delle truppe alemanne. Le porte della città si spalancano, così come- anche per lui – quelle di San Michele dove solo l’anno prima, l’ avversario Arduino era stato incoronato.
Ma non tutti sono contenti del cambio sul trono.
Non c’è una versione ufficiale del perché, verso sera, un gruppo di cittadini prendono d’assalto il Palazzo reale che ospita Enrico.
Il furore del popolo aumenta, il ruggito dei Pavesi che scendono in strada fa paura. La parte nord della città, dove si trova l’antico palazzo realizzato dai Longobardi, viene bersagliato di frecce e sassi. Il re Enrico II, sdegnato e furibondo per l’umiliazione, vuole combattere e cerca di uscire per affrontare i rivoltosi. Ma i suoi lo fermano. La sparuta guarnigione di cui dispone non basta a fronteggiare migliaia di insorti. Così fugge calandosi da un muro. E cadendo , pare, si storpia una gamba.
Attraversa, nascosto da un cappuccio, la parte più esterna della città, fino a raggiungere la basilica di San Pietro in Ciel D’oro.
Il giorno dopo, solo grazie all’incredibile capacità di mediazione di Odilone, abate di Cluny, i pavesi evitano una rappresaglia. Enrico, fino alla sera prima furioso, perdona i pavesi. E riparte per la Germania. Ma l’odio per il sovrano resta e cova sotto la cenere.
Nella storia Di Pavia c’è un altro simbolo della città diventato bersaglio della cieca rabbia. E’ la statua del Regisole, di cui si è già parlato, e della quale esiste oggi un copia in piazza Duomo.
E’ il 2 ottobre del 1315, ed è l’ennesimo scontro fra Pavia e Milano. I milanesi, ancora una volta, stringono d’assedio la città. I cronisti del tempo ci riportano il nome dell’uomo che tradisce la città: Marchetto Salerni. E’ descritto come “forte e bellicoso e più di ogni altro pugnace contro il nemico, più di ogni altro feroce, vigile, solerte nei consigli e nell’attenzione e in questo serviva la patria.” Cosa lo spinga a tradire non si sa.
Fatto sta che una delle nove porte della città (Porta Piacentina, che oggi non è più visibile, e che si apriva nei pressi dell’attuale Chiesa di San Giovanni in Borgo) viene aperta e presto fanno il loro ingresso i mercenari tedeschi al soldo di Milano. Nell’attuale piazza Borromeo i pavesi tentano una disperata resistenza, ma non basta: all’alba i Visconti di Milano entrano in città. E’ in questa circostanza che le truppe vittoriose distruggono (parzialmente) la statua del regisole , già collocata nella sua attuale posizione dopo la demolizione del Palazzo reale, dove era stata messa. Matteo Visconti, a capo delle truppe mercenarie, interviene ordinando loro di rimettere a posto quella che per i Pavesi era (ed è) un simbolo, evitando ulteriori provocazioni.
Scampata, per il momento, alla distruzione, la statua verrà fatta a pezzi invece nel 1796 dai giacobini pavesi perché rappresentazione di un monarca.