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LA FURIA DEI GIACOBINI PAVESI: QUANDO LA STATUA DEL REGISOLE VENNE ABBATTUTA

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I simboli, nelle rivoluzioni, sono importanti quanto le armi. Fra piazza del Duomo e l’attuale piazza della Vittoria, si consumano due episodi-chiave che rappresentano il clima che si respira in una città di nuovo sottosopra. La situazione precipita. Gli austriaci sono in fuga. In ordinate colonne, senza dire una parola su quanto sta succedendo, rientrano dalla frontiera del Gravellone, da dove erano entrati trionfanti solo qualche decennio prima, e attraversano il Ticino marciando in silenzio verso il Po. Un ‘altra colonna, invece prende la strada di Bereguardo.

Il 9 maggio non c’è più neppure una divisa asburgica a Pavia. Insieme all’esercito, fugge anche quella parte della popolazione, per lo più nobili, che si è eccessivamente compromessa con l’amministrazione imperiale. I ricchi patrizi sono preoccupati per la loro incolumità. E’ in questo periodo che molti degli stemmi delle antiche casate spariscono dai muri degli splendidi edifici del centro. I proprietari non vogliono ,all’arrivo dei Giacobini francesi far capire quali sono i loro possedimenti. Pavia piomba in un silenzio quasi irreale. Solo il rumore degli scalpellini rimbomba per le strade.Prima di andarsene però, gli austriaci minano il ponte coperto, ma la bomba non scoppia. Poi più nulla. Ai pavesi non sembra vero di poter approfittare della momentanea anarchia in cui piomba la città. Una folla di saccheggio e libertà si getta su due navi attraccate alla darsena cariche di sale e tabacco abbandonate dai soldati in fuga, e le spogliano di tutto.

Annota Vincenzo Rosa nella sua “Insurrezione e il sacco di Pavia avvenuti nel maggio del 1796": "Sembravano tante formiche quando fanno i trasporti, o le api quando depredano un alveare rotto”. Ma l’ubriacatura dura poco. Da lì a cinque giorni arrivano le prime avanguardie francesi. Giungono dalla strada di Lodi, dove Bonaparte ha combattuto e vinto una dura battaglia.

La Pavia che resiste a qualunque invasore, fiera e protetta dalle sue alte mura, è ormai uno sbiadito ricordo.

Molto più italicamente , uno sparuto drappello di nuovi conquistatori viene accolto da un ossequiente gruppo di rappresentanza formato da autorità civili e religiose , seguiti da una esigua folla. Anche se , nell’animo della maggior parte dei cittadini, il pessimo ricordo della dominazione francese di qualche decennio prima rimane. Non è proprio quella che si direbbe una accoglienza calorosa. Anzi. Quando arriva il grosso dell’esercito il giorno dopo, formato da circa seimila effettivi sotto il comando del generale Pierre Augereau, è la paura a prevalere.

L’aspetto dei soldati francesi è tutt’altro che marziale. Marciano lungo Strada Nuova, proseguono oltrepassando l’attuale piazza  Italia per raggiungere viale XI Febbraio , sede del Castello Visconteo e da sempre punto di appoggio degli eserciti stranieri in transito per la città. Il loro aspetto malconcio li fa quasi assomigliare a dei predoni e la diffidenza nei loro confronti sale. Ma, almeno per il momento, i francesi non mostrano alcun interesse per le sorti della città.

Gli amministratori in carica , nominati dagli Asburgo, corrono a omaggiare i nuovi padroni. Al generale Augereau vanno benissimo , purchè collaborino. La promessa è quella di tenere a bada la truppa, sempre che non ci siano provocazioni o violenze. Iniziano ad apparire per le vie della città le prime coccarde bianco, rosso,blu. Ma cominciano anche le prime requisizioni: cavalli, vestiti, armi, cibo. E ancora scarpe, lenzuola , camicie. Si cerca soprattutto panno blu, colore di ordinanza dei soldati francesi.

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Pierre François Charles Augereau

Ma se in città si mantiene un minimo di ordine senza cadere negli eccessi, è nel contado che le truppe si sentono più libere di perpetuare prepotenze, quando non violenze. Il malumore sale e avrà delle conseguenze anche per la città da lì a poco. I rappresentanti di nobiltà e clero che non sono fuggiti stanno intanto con il fiato sospeso. Capiscono che tira una brutta aria. Ma non sono preoccupati tanto per l’ennesima occupazione straniera. A renderli inquieti, più che altro, sono i loro concittadini.

E il 16 maggio il loro timore prende corpo. L’esordio dei giacobini locali non è dei migliori. Il teatro dell’episodio è piazza Grande, l’attuale piazza della Vittoria che abbiamo già visto tante volte protagonista. Come di consuetudine, i francesi piantano nei luoghi simbolo delle città conquistate il cosiddetto albero della pace, emblema della rivoluzione. La municipalità cittadina accetta con fervore il vezzo dei nuovi occupanti, e offre il salotto buono di Pavia per innalzare il simbolo, cioè Piazza Grande, l’attuale Piazza Vittoria. L’ex foro romano viene addobbato a festa. Arriva una folla timorosa a curiosare, tutto sotto la supervisione delle truppe francesi e del loro generale in testa. Arrivano anche i componenti del club di Sant’epifanio, i già citati giacobini da salotto e della prima ora. A guidare padre e figlio Nocetti. Insieme a loro,però, si mischiano quelli che oggi chiameremmo gli “antagonisti”, giunti apposta per scatenare disordini. Questi vogliono invece che l’albero sia eretto nella vicina piazza del Duomo. Un’evidente provocazione. Iniziano a volare insulti e spintoni. Il generale Augereau usa la testa anziché le armi, e accondiscende.

Intanto qualcuno ha già iniziato a scavare una profonda buca davanti alla cattedrale.

A questo punto succede qualcosa di imprevisto. Dalla folla un gruppetto inizia a urlare che bisogna distruggere la statua del Regisole, già in precedenza bersaglio di facinorosi. In fondo si dice rappresentanti un imperatore e comunque è l’emblema di un passato autoritario ed elitario. Sembra che uno dei generali chieda alla folla se vuole o no che la statua venga abbattuta.Il popolo risponde di no ma nella confusione i pochi che la pensano diversamente puntano decisi verso la statua equestre.

Un paio di esagitati salgono a cavallo e lo imbrigliano con una fune. Il monumento, tirato da decine di mani, alla fine cede con grande schianto sul sagrato. Finisce così distrutto  e per mano degli stessi pavesi , uno dei simboli più antichi della città. La sua distruzione è però evidentemente opera solo di qualche facinoroso, perché alla notizia il popolo si indigna. Le conseguenze più immediate sono la diffidenza, se non l’odio vero e proprio , nei confronti di chi esibisce la coccarda tricolore francese.

Bisogna ora lasciare per un attimo la folla inferocita di Piazza del Duomo e spostarsi di qualche chilometro. Dopo aver attraversato il ponte Coperto, ci si accomoda sulla riva del Ticino, in Borgo,perché qui va in scena il secondo atto della storia. E’ sera e, complice anche qualche bicchiere di troppo , scoppia una rissa fra i cittadini e soldati.

Costantino Panigada, studioso del periodo e autore di “Pavia nel primo anno della dominazione francese dopo la Rivoluzione. Maggio 1796giugno 1797” assicura che parecchi militari quella notte sono scesi a dormire il sonno eterno nelle acque del Ticino.

Il giorno seguente, il 17 maggio, Augereau fa proclamare un bando che, dopo aver stigmatizzato l’accaduto, annuncia la punizione del delitto.

I responsabili non vengono identificati, ma l’annuncio del generale al comando dell’esercito francese suona come una minaccia reale: chiunque , d’ora in avanti, venga sorpreso a fare una qualunque azione provocatoria verrà passato per le armi.

Il nervosismo in città sale alle stelle. Si sparge la voce di un'imminente sacco di Pavia. I comandanti francesi si affrettano a smentirla. Ma è troppo tardi.

Nel frattempo due soldati francesi vengono uccisi, a scopo di rapina, da due contadini affamati. Davanti al castello gli autori del delitto vengono fucilati

L’esecuzione serve, quanto meno, a raffreddare gli animi.

Augereau, il giorno dopo , lascia la città con il grosso dell’esercito, sicuro di aver pacificato Pavia. Resta, in Castello, una guarnigione di 500 uomini.

Nel frattempo il club di Sant'Epifanio, si trasforma in “Società popolare” e invita i suoi concittadini a sostenere il governo che, in fondo, si sta comportando in modo equo e corretto. Una provocazione per i più. E le conseguenze non tarderanno ad arrivare.