Il ghetto ebreo di via dei Liguri
Quando i pavesi erano razzisti
L’attuale via dei Liguri è una via stretta a ridosso di piazza del Duomo. La si incontra già all’ epoca dell'antica Ticinum come una delle tante strade caratteristiche del centro, larghe solo qualche metro, nel cuore delle insulae della città romana.
E’ proprio qui che, a circa metà del Quattrocento , nasce il quartiere ebraico di Pavia.
Nella Pavia di oggi, a differenza di altre città . non esiste una comunità ebraica organizzata e popolosa. Ci vivono poche famiglie, senza peraltro avere una cittadina come, per l’appunto, si verifica altrove.
Nel 1389, alcuni documenti registrano in città un Isacco, autorizzato dal governo ducale. E’ un commerciante, che stando alle fonti apre un negozio di merce varia. E’ lui il primo ebreo di cui si ha notizia in città. Da lì a qualche anno, si formerà una popolosa colonia il cui stanziamento principale sarà proprio via dei Liguri. Ben presto, l’attività principale non sarà tuttavia il commercio, bensì il prestito. Banchi per avere soldi vengono aperti nel giro di qualche anno in tutta la zona : L’ATTUALE VIA TEODOLINDA, VIA BOSSOLARO, VIA OMODEO, VIA PARODI.
In poco tempo, le botteghe del prestito si estendono in tutta la città, uscendo da quella che ancora oggi viene definita la contrada degli ebrei. Questo popolo non trova alcuna difficoltà nel periodo dei Visconti e degli Sforza, che anzi ne favoriscono l’attività. E non tanto per generosità o ampie vedute in fatto di religione, quanto piuttosto per gli ingenti capitali di cui dispongono e che rappresentano iniezioni di denaro fresco nelle attività del principato. Ma, proprio in virtù della loro primaria occupazione , gli ebrei non piacciono ai pavesi. Non si tratta di semplice antipatia o di qualche caso isolato. Oggi, lo chiameremmo senza tanti giri di parole “razzismo”.
Infatti nel Quattrocento, diventa una sorta di abitudine recarsi il venerdì santo in via dei Liguri e strade limitrofe, dove risiede all’epoca la comunità ebraica, e iniziare a urlare, disturbare in ogni modo e provocare gli ebrei davanti alle loro case. Dei veri e proprio raduni dettati dalla discriminazione.
A nulla valgono i tentativi di contenere questa ostilità da parte del governo ducale. Gli ebrei si troveranno sempre di più nel centro del mirino.
Si registrano, in alcuni casi, che diventano sempre più numerosi con il passare del tempo, maltrattamenti e aggressioni dettate da fanatismo e pregiudizio razziale. Il caso più grave di intolleranza si verifica non in città, ma a una ventina di chilometri da Pavia. Ad Arena Po, il piccolo comune della Bassa che compare già nella storia pavese dell’epoca preistorica.
Il tranquillo borgo in riva al Po stavolta balza agli onori della cronaca nera. In questa porzione di Oltrepò, fra Broni, Casteggio e Stradella, vive una piccola comunità isrelita.
E’ il 1470. Fra le accuse che abitualmente vengono rivolte agli ebrei ci sono anche quelle di sacrifici umani. Alla vigilia di quest’anno, in paese sparisce un bambino. Dopo un’indagine sommaria, viene incolpato della sparizione un ebreo di Stradella. L’uomo è torturato e durante l’interrogatorio gli viene estorta la confessione in cui ammette la propria responsabilità, insieme ad altri complici anche loro ebrei.
La voce si diffonde e arriva fino a Pavia.
Una folla inferocita dà assalto alle abitazioni di via dei Liguri. Le guardie ducali faticano a tenere a bada l’orda che vuole mettere a ferro e fuoco le case e i negozi senza neppure un processo. Nel pieno della bufera, il bambino viene ritrovato , sano e salvo, dalle stesse guardie del principato.
L’odio verso gli ebrei, nonostante l’evidente dimostrazione di innocenza , si smorza ma non si placa.
I discendenti di Isacco, nonostante tutto, rimangono a Pavia esercitando la loro professione: prestare denaro . Bernardino da Feltre, noto predicatore, fustigatore dei costumi licenziosi, e accusatore degli ebrei ritenuti gli assassini di Cristo e soprattutto usurai, getta benzina sul fuoco.
Il frate, fondatore del Monte di Pietà (o banco dei pegni), da qualche anno vive proprio a Pavia. Qui la sua personale crociata contro gli odiati avversari raggiunge l’acme, nonostante le diffide dello stesso ludovico il Moro. Le predicazioni infauste hanno comunque un esito. I pavesi alla sua morte avvenuta proprio a Pavia il 28 settembre del 1494, promettono che , in suo onore, cacceranno dalla città gli ebrei. L’odio instillato da Bernardino (beatificato nel 1654, e il cui corpo è ancora conservato nella Chiesa di Santa Maria del Carmine) cova per qualche anno, fino a quando gli animi si incendiano di nuovo.
Via dei liguri e le vie adiacenti si trasformano in un vero e proprio ghetto.
Nel 1521 le persecuzioni di cui i pavesi si macchiano diventano talmente gravi che il vescovo e il podestà sono costretti a intervenire minacciando l’uno scomuniche, l’altro gravi punizioni contro chi commette crimini nei confronti degli ebrei. Nonostante questo, agli israeliti viene imposto di portare in testa un berretto giallo, non si sa se per farsi riconoscere (e quindi difendere da inopportuni attacchi) o per un’ulteriore dimostrazione di discriminazione nei loro confronti. Ma l’odio dei pavesi è inarrestabile . Nel 1527 si tenta di organizzare , addirittura, una sorta di espulsione di massa dei residenti appartenenti a questa religione. Lungo l’attuale Strada Nuova, provenendo anche dalla parte meridionale della città. Cioè da Borgo Ticino, una folla minacciosa si raduna in piazza Grande (oggi piazza della Vittoria). Il ghetto è a poche centinaia di metri. Le famiglie degli ebrei pavesi, uomini, donne bambini, sprangano le porte delle loro abitazioni e delle botteghe ormai diffuse in tutta la città. Solo porte l’energico e decido intervento delle guardie ducali scongiura un bagno di sangue. Come detto , a muovere le autorità a difesa della comunità ebraica non è certo il senso di giustizia o la pietà verso centinaia di persone inermi e indifese, quanto la funzione che oramai molti ebrei hanno raggiunto in seno alla società: da semplici prestatori di denaro a veri e propri banchieri. Sono troppo importanti, dunque , per essere lasciati alla mercè di cittadini esagitati e mossi da rancore unicamente religioso.
Ma la resa dei conti è solo questione di tempo.
Il clima di intolleranza che si è creato a Pavia è figlio dei tempi. Tanto è vero che nel 1558, per non essere (ancora) riusciti nel loro intento di cacciare gli ebrei dalla città, i pavesi chiedono e ottengono, da papa Paolo IV il perdono per non aver assolto alla promessa fatta qualche anno prima a Bernardino. Cionondimeno quando , in questo stesso periodo, il governo lombardo si pronuncia negativamente sulla cacciata degli ebrei dal Ducato., i pavesi chiedono che comunque la comunità locale venga allontanata dalla loro città. Ma non sono accontentati. I tempi saranno maturi solo sette anni più tardi. Al potere in Italia c’è da qualche decennio, Carlo V. Il re e imperatore ha avuto la consacrazione nel 1525, in cui la Francia di Francesco I esce sconfitto.
Sarà il successore di Carlo V, Filippo II, a realizzare il “sogno” tanto tenacemente portato avanti dai pavesi.
Nel 1565 il monarca dispone la cacciata degli israeliti da tutta la Lombardia. La protesta è immediata e i potenti banchieri presentano un ricorso contro il decreto regio. Dall’altra parte , i cittadini sommergono la corte di suppliche, petizioni, domande, documenti e accuse a sostegno della loro richiesta .In realtà, è nel 1591 che la legge diventerà effettiva. Chi non si converte, deve lasciare la città e la Lombardia. A Pavia si crea una zelante commissione che controlla l’attuazione del provvedimento.
Nel luglio del 1597, da via dei Liguri e dintorni , le ultime famiglie ebree abbandonano le loro abitazioni per non farvi mai più ritorno,almeno come comunità.