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I covi di Scarenzio e Galleria Manzoni: Pavia la città dormitorio delle BR

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La prima pista che collega Pavia al terrorismo parte da Roma. Ovvero dal sequestro di Aldo Moro. Nella seconda foto che ritrae il presidente della Democrazia cristiana prigioniero delle Brigate Rosse c’è una copia di Repubblica. Il giornale, si scoprirà poi, è di un abbonato della provincia di Pavia. Ma non è un caso che nelle mani dello statista ,ostaggio nel covo di via Montalcini, ci sia un quotidiano proveniente da Pavia. Ci sono tre nomi che legano infatti la città alle Br: Elfino Mortati, Fabrizio Pelli e soprattutto Renato Longo. E’ l’intuito di Ettore Filippi, capo della squadra mobile di Pavia, a mettere insieme i primi tasselli che lo porteranno all’arresto del capo storico della Brigate Rosse, Marino Moretti. Sarà lo stesso Filippi, il 4 aprile 1981 a tirargli le manette intorno ai polsi a Milano. Ma la sua cattura nasce a Pavia.

Si torna allora in città. Alla stazione, per la precisione. Il primo campanello suona in una famosa giornata di giugno del 1980. Su segnalazione dell’Antiterrorismo di Roma, Filippi e altri agenti bloccano, appena sceso dal treno , il brigatista Elfinio Mortari, ricercato per l’omicidio di un  notaio a Prato. Insieme a lui , una coppia di Roma. Non si sa perché siano proprio a Pavia. Si sa solo che la loro destinazione finale doveva essere Milano. Ma per non ci vuole molto a capire che Pavia potrebbe essere il luogo ideale per non dare nell’occhio. Lo sanno bene i terroristi delle colonne milanesi che , scoprirà più tardi il capo della squadra mobile, scelgono la città in riva al Ticino come base logistica proprio per il basso profilo. Via Scarenzio è quanto di più anonimo ci possa essere in una città. E’ in periferia , a due passi da viale Cremona, direzione sud. Basse palazzine con giardinetto, nulla sopra le righe.

E’ il posto perfetto per un covo.

La scoperta, come spesso accade, è casuale. In una villetta, durante le vacanze di Natale 75, si rompe una tubatura. Nell’abitazione vive una coppia di studenti insospettabili. Il fabbro per entrare  nell’alloggio deve chiamare la volante e, mentre l’artigiano ripara la tubatura, gli agenti vedono materiale con la stella Br a cinque punte. Subito chiamano il dirigente dell’ufficio politico della questura Michele Cera. Scattano appostamenti e alla vigilia di Natale si arriva alla cattura di Fabrizio Pelli. Perché i brigatisti scelgono Pavia come dormitorio?

“Gli universitari nelle case in affitto cambiano continuamente. Quattro sconosciuti che vivevano in maniera regolare passavano dunque inosservati. A Pavia, però, certe cose si udivano. I primi discorsi sulla “rivoluzione armata", ricorda Filippi in un’intervista del 2007 alla Provincia Pavese – mi dicevano i colleghi dell’ufficio politico della questura, erano stati sentiti nell’ambiente dell'Autonomia.

Indagando sulle circostanze dell’affitto di via Scarenzio, spiega ancora Filippi, viene fuori il meccanismo con cui le Br prendono in affitto gli appartamenti. Da quel momento l’Ufficio politico manda l’ispettore Quassolo a verificare la regolarità della documentazione presso tutte le agenzie immobiliari”.

Spostiamoci ora dall’altra parte della città, sempre in periferia:  Galleria Manzoni, a ridosso dell’omonima via. Anche in questo caso portoni anonimi, frammentati da negozi. Gente qualunque , persone tranquille. Nulla di appariscente, tutto normale. Qui viene scoperto il secondo covo. “Attraverso questi controlli emerge che in Galleria Manzoni, c’è un appartamento con le caratteristiche che servono ai brigatisti, affittato con documentazione fasulla. – ricorda ancora Filippi – E’ la prova che conferma Pavia come dormitorio dei brigatisti”.

Ma la figura chiave grazie alla quale la polizia arriva a Moretti e a Enrico Fenzi (il primo capo militare e il secondo capo ideologico delle Br) è Renato Longo. Moretti e Fenzi in questo periodo lavorano alla ricostruzione di una colonna milanese ortodossa delle Br. A Pavia vive sotto falso nome, perché ricercato, l’ ex studente universitario Renato Longo, di Asti.

Il giovane fa il pendolare con Milano per seguire il corso di addestramento per brigatisti tenuto dai due leader. Longo viene riconosciuto per strada dall’ agente Congestrì, che lo porta in questura. Dal suo documento falso la squadra mobile viene a sapere che è già stato controllato in un appartamento di Corso Manzoni. I poliziotti vanno nel suo alloggio e ci trovano il materiale delle Br. “Allora trattammo con lui la cattura di Moretti e Renzi", spiega Filippi.

Il 4 aprile 1981, a Milano, i due brigatisti vengono arrestati in via Cavalcanti mentre si stanno recando all’appuntamento con altri aspiranti terroristi. Alle Brigate Rosse viene inferto un colpo mortale. Anche Pavia, seppure solo indirettamente, viene macchiata di sangue. Il sangue è quello di Luigi Marangoni, direttore sanitario del policlinico di Milano. Pavese di nascita, Marangoni da anni si è trasferito nel capoluogo lombardo per lavoro.

Bisogna fare un salto indietro di qualche mese, qualche settimana prima della cattura di Moretti. Sono le 8.20 del 17  febbraio 1981, quando Marangoni esce dalla sua abitazione di via don Gnocchi 4 , a Milano. Come tutte le mattine, è a bordo della sua automobile e sta per recarsi all’ospedale. Ad attenderlo, appostate, ci sono 4 persone armate di mitra e bastoni acuminati. Bloccano la vettura e aprono il fuoco, crivellando di colpi il corpo di Marangoni prima di fuggire a bordo di un’auto. Nelle vicinanze un funzionario di polizia e il suo autista a bordo di un'auto della polizia con targa civile sono richiamati dagli spari e dopo un breve inseguimento ingaggiano uno scontro a fuoco con i brigatisti senza tuttavia riuscire a fermarli. Il medico agonizzante viene trasportato d’urgenza al policlinico di Milano, lo stesso ospedale di cui è direttore sanitario, e dove muore poco dopo. L’omicidio è rivendicato dalle Brigate Rosse, colonna Walter Alasia, con una telefonata al quotidiano La Repubblica.

Si chiude così tragicamente a soli 44 anni , la vita e la brillante carriera di Luigi Marangoni, nato a Pavia nel 1937, medico e dirigente dell’importante ospedale milanese, che lascia la moglie Vanna Bertelè e due figli, Francesca e Matteo.

La condanna a morte è arrivata dopo le molte minacce ricevute dal dirigente medico a causa della sua intransigenza nel denunciare, con esposti alla magistratura , il clima di tensione all’interno dell’ospedale. Infatti il policlinico negli anni di piombo è considerato un vero e proprio vivaio dei gruppi eversivi, come ha dichiarato molto tempo fa Prospero Gallinari membro del nucleo storico delle Br: “Un portinaio su due se non era brigatista era vicino all’autonomia operaia”. Pavia ha intitolato a Marangoni una via, mentre a Milano gli è stata dedicata un’ala dell’ospedale che dirigeva.