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GIOCHI FALLICI PER LE STRADE, L’ATTACCO DI MILANO : LA STORIA DI JACOPO BOSSOLARO. 

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Crederebbe mai qualcuno ,oggi, che c’è stato un tempo in cui l’attuale Borgo Ticino, con le sue case colorate che si affacciano sul fiume e i suoi campi appena dietro, via Menocchio, con l’austera sede dell’arcivescovado, l’elegante corso Garibaldi, , la trafficata di via del Tribunale, o la caotica piazza della Vittoria, in un periodo dell’anno, si riempissero di simboli fallici appesi ai rami degli alberi a cui tutte le fanciulle – anche di buona famiglia – correvano incontro con delle aste, percuotendo per farli cadere?

Bisogna fare un piccolo salto indietro nel tempo, solo di qualche anno. E’ il 1356. Galeazzo Visconti, che nei dieci anni successivi costruirà il Castello e riporterà in auge Pavia, cinge d’assedio la città con 40 mila soldati.

La situazione dell’ex capitale dei Longobardi ha toccato il fondo. Dal decennio precedente, è saldamente in mano a una nobile famiglia pavese, quella dei Beccaria. Sotto di loro, Pavia è piena di decadenza. Mantiene, però, un aspetto accogliente e addirittura godereccio, difficile da immaginare oggi. I vicoli sono pieni di prostitute, regine incontrastate del piacere libertino che richiama all’interno delle sue mura giovani ( e non solo) delle vicine città. A loro si deve , pare, l’invenzione di questa festa vagamente  pagana che proprio a Pavia prende piede. I “frutti”,cioè i simboli fallici, vengono poi raccolti e, tra lo schiamazzo generale, viene dichiarata vincitrice la donna che riesce a collezionarne il maggior numero. Anche i gentiluomini e le nobildonne non si sottraggono al gioco.

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Galeazzo Visconti

E’ in questo clima di rilassatezza dei costumi che Galeazzo Visconti, signore di Milano con mire sulla vicina Pavia, si presenta nella primavera del 1356.

La campagna attorno alla città è una conquista facile , tanto che lo stesso duca si pone in testa alle truppe. Ma l’antica Ticinum, come spesso nei casi in cui viene cinta d’assedio, si chiude e resiste . Galeazzo , tutt’altro avvezzo a guerre lunghe e faticose , preferendo a queste i lussi della sua corte , se ne torna a Milano dopo 15 giorni di inutili tentativi. I suoi uomini, allora, costruiscono dei fossi e terrapieni nell’attuale fiume Gravellone , corso d’acqua  che corre ancora oggi appena fuori Pavia, nella zona di San Lanfranco, e altri di fronte all’attuale Porta Milano.

A guidare i pavesi di fronte all’ennesimo invasore, non sono però i beccaria. E’ un frate agostiniano, Jacopo Bossolaro. E’ nato a Pavia nel 1320, dopo gli studi ad Alessandria, torna nella sua città natale e insegna nelle scuole annesse al convento di San Pietro in Ciel D’oro.

Già negli anni precedenti, il frate flagella nelle sue prediche i concittadini, troppo dediti ai piaceri della tavola, del vino e della carne. Ma quando la città è in pericolo, non esita a porsi a capo della resistenza. Dal pulpito, ora, non li rimprovera più: li arringa.

Nei lunghi e vibranti sermoni, richiama alla memoria Roma antica, di cui è appassionato studioso. La sua eloquenza trascina i pavesi e in nome della loro antica fierezza, li incita alla difesa delle mura contro l’invasione milanese.

Il mite fraticello si trasforma in un irruente tribuno.

I Visconti, alla fine si ritirano. Jacopo Bossolaro è il nuovo eroe della città. E cosa c’è di meglio di un’ inattesa celebrità e dell’umana tentazione di approfittarne? Così fa.

Bersaglio delle sue invettive, questa volta sono gli stessi potenti signori della città, cioè i Beccaria. Con prediche infuocate , li accusa di sfruttamento e corruzione. Lo storico Mino Milani nota che l’oggetto dei discorsi non è il modo in cui  la famiglia di è arricchita. Che i Beccaria abbiano costruito la propria fortuna con ruberie e prevaricazioni non impressiona più di tanto l’uomo pavese. Questo è il metodo usato da tutte le casate, e loro non fanno eccezione.

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Bossolaro non li mette alla gogna per questo.

Da profondo conoscitore dell’animo umano e grande oratore quale , tocca le corde che più sa possono far infuriare il popolo. L’ accusa nei confronti dei Beccaria è infatti quella di aver speculato sul prezzo del grano e aver affamato il popolo che, baccanali a parte, non se la passa granché bene. Almeno la plebe, s’intende.

Infatti sono i ceti più umili che insorgono e cacciano i signori che fino a quel momento hanno retto le sorti di Pavia.

L’ondata di violenza che ne deriva è devastante. La gente inferocita prende d’assalto case e proprietà dei Beccaria. Fiorello Beccaria, ha una dimora nella zona di Porta Laudense. Un suo congiunto, a Porta Palazzo. Ma come tutti i ricchi e potenti che si rispettino, la maggior parte delle residenze si affaccia sull’attuale piazza della Vittoria.

E come consuetudine dei pavesi, già mostrata con la distruzione di Palazzo reale, non una pietra resta in piedi.

I tiranni sono cacciati, annuncia il frate. Che, poco dopo, riforma la magistratura pavese e nomina ventidue centurioni fra i più meritevoli durante la rivolta, nelle diverse contrade, cioè quartieri, in cui ancora oggi è suddivisa la città vecchia. A questi si affiancano addirittura i decurioni con il compito di dirigere la vita cittadina e rappresentare la neonata repubblica.

In pratica, nasce una milizia armata agli ordini di Jacopo Bossolaro.

Non domo, crea tribuni della plebe. Insomma, tutto a immagine e somiglianza dell’antica repubblica romana. Inevitabile il richiamo all’azione, fra l ‘altro quasi contemporaneamente , del tribuno romano Cola di Rienzo.

Lo scrittore Pietro Azario, che vive in questo periodo, e forse conosce di persona il frate pavese, racconta espressamente i continui richiami agli antichi Romani, soprattutto alle virtù della Repubblica. La sua è una lotta anacronistica, contro i costumi rilassati e la mollezza che i suoi concittadini hanno ormai fatto loro da qualche decennio.

Ma i vecchi signori della città meditano vendetta, tentando una rappresaglia. La risposta di Bossolaro è spietata. Chi in città trama per il ritorno dei Beccaria , o li appoggia più o meno apertamente, viene braccato e ucciso. Davanti al palazzo del Broletto già sede del Comune, e che ancora oggi si affaccia in piazza della Vittoria, dodici “partigiani” vengono trucidati, tramite decapitazione.

Ma i vecchi signori della città meditano vendetta, tentando una rappresaglia. La risposta di Bossolaro è spietata. Chi in città trama per il ritorno dei Beccaria, o li appoggia più o meno  apertamente, viene braccato e ucciso. Davanti al palazzo appoggia più o meno apertamente , viene braccato e ucciso. Davanti al palazzo del Broletto , già sede del Comune, e che ancora oggi si affaccia in piazza della Vittoria, dodici “partigiani” vengono trucidati, tramite decapitazione. Una lezione, molto probabilmente, esemplare che funge anche da ammonimento. Fonti dell’epoca parlano di avvocati e giudici, fra i condannati. Jacopo Bossolaro è il padrone assoluto della città.

Un disegno a penna di Pasquale Massacra, pittore pavese vissuto nell’ 800, rappresenta il culmine del successo del frate. Nell’opera ( conservata ai Musei Civici ), alcune donne fanno offerte al nuovo padrone della città.

Ma il potere di Bossolaro è destinato a finire.

A porre fine alla dominazione del frate, sono i visconti, che nel 1359 tornano a Pavia e la cingono in assedio. Questa volta però fanno sul serio. Galeazzo è spietato . Da secoli Pavia non subisce un assedio così duro. Bossolaro riprova il miracolo che già una volta gli è riuscito. Raccoglie fondi per la resistenza , esorta  a ogni tipo di sacrificio , percorre infaticabile le vie della città incitando i suoi concittadini a combattere.

Il frate , come sempre, si mostra determinato e spietato.

Quando il cibo è praticamente finito , espelle dalla città donne, vecchi e bambini. O chi non può combattere.Le razioni servono solo a chi può ancora imbracciare un’arma. Ma non basta. Alla fine anche il poco pane rimasto finisce. Si dà allora la caccia ai cani. La loro carne viene venduta a prezzi salatissimi al “mercato nero” nei vicoli della città.

Il 13 novembre del 1359, alle ore 19, anche l’irriducibile frate deve arrendersi.

Il 15, le truppe milanesi al comando di Protasio dei Caimmi fanno il loro ingresso dall’attuale Porta Milano. E’ la fine della repubblica pavese.

Ma si sbaglia chi si immagina una fine anche per Il Cola di Rienzo nato in riva al Ticino. Galeazzo Visconti, riconoscendo comunque la capacità del frate abbagliato dalla sua personalità, lo risparmia.

Viene comunque arrestato. Passa 14 anni in un carcere di Vercelli, dove esce nel 1373. Va in esilio Ad Avignone , dove lavora per papa Gregorio XI. Dopo una vita a dir poco avventurosa, muore ad Ischia, dove si era recato negli ultimi anni della sua vita, il 16 agosto del 1380.